Intervista a Marcelo Pakman
Intervista a Marcelo Pakman
Abbiamo incontrato il Dr. Marcelo Pakman nel suo recente viaggio in Italia e gli abbiamo posto qualche domanda:
Dott. Pakman, è un po’ strano trovarla nella veste di ospite dell’Associazione Italiana Psicodrammatisti Moreniani (www.aipsim.it). Lei è uno psichiatra e psicoterapeuta che ha approfondito approcci diversi dai metodi di J.L.Moreno. Come si trova in questa veste?
Mi capita spesso di partecipare a riunioni in cui uno non sta proprio “nel suo posto”. In effetti io non sono uno psicodrammatista. Credo che la ragione di questo invito da parte dell’AiPsiM sia proprio il confronto costruttivo tra persone che non devono avere per forza una conoscenza comune. In tali situazioni, infatti, non si può dare tutto per scontato: ci si può interrogare reciprocamente, stando un po’ al di fuori di sé, superando i clichés, inevitabili conseguenze dell’essere inseriti in un preciso contesto.
È noto che lei sia stato attratto da Freud e dai suoi studi tanto da diventare anche uno psicoanalista; al contempo anche Moreno non le è stato indifferente. Come si può considerare il suo interessamento a entrambi?
Sono stato molto attratto da Freud e da Moreno anche come fenomeni culturali.
Attivi in periodi storici contigui, entrambi accomunati da radici ebraiche, essi si sono mossi in modo molto differente dentro l’Illuminismo. Freud parla di “inconscio” che rappresenta una sorta di scandalo per gli illuministi, però ricordiamo una sua frase, che fa da titolo a molte sue opere: dov’era l’Es dovrà essere l’Io. Rispetto all’etica del contesto in cui questa frase si inseriva, ci sono state due interpretazioni molto differenti: negli Stati Uniti, sotto l’etica protestante, se n’è data una interpretazione razionalistica, l’Es, l’incosciente, l’impulsivo, deve esser rimpiazzato dall’Io e gli strumenti per fare ciò, per dominare l’inconscio, sono le interpretazioni delle varie concezioni che riguardano l’infanzia e lo sviluppo evolutivo.
Nella Francia cattolica e tra i poeti maledetti, che cozzano tra loro, un po’ come se i poeti maledetti fossero la faccia oscena della Francia cattolica, se n’è data un’interpretazione diversa e sebbene l’interpretazione sia stata in parte razionalista, non lo fu principalmente (come per Lacan che si definiva l’unico vero erede del pensiero freudiano). Si disse cioè che non è l’Io che deve sostituirsi all’Es, ma che l’Io deve avvenire nell’inconscio, di per sé non addomesticabile. In entrambi queste due interpretazioni, il peso della parola, dell’ermeneutica è molto forte così come forte è la radice talmudica (ortodossa), dell’ebraismo freudiano.
Con Moreno avviene una cosa molto diversa: la radice ebraica principale nei suoi lavori non è la radice talmudica ma è una radice chassidica e cabalistica. Moreno tenta di portare fuori tutti quegli elementi che Freud confina nell’inconscio e pone quest’ultimo sulla scena, lo rende teatro, perché in sintonia con l’approccio della cabala: tutto il mondo è un teatro, è il teatro di Dio.
Psicoanalisi e Psicodramma sono costantemente in tensione su queste due radici, dell’ermeneutica interpretativa e dell’ermetica del teatro…
L’ermetica utilizza in minima parte la parola significante, perché non vuole rimanere impigliata in essa, ma cerca una dimensione più ampia, la dimensione del senso. Se Freud vuole interpretare i sogni e quindi intitola il suo libro “L’interpretazione dei sogni”, non “I sogni”, Moreno vuole mettersi proprio dentro i sogni, dentro la scena, non aspirando ad incarnarli, perché l’idea dell’incarnazione rimanda a qualcosa che parte da un’astrazione.
Moreno cerca la dimensione che si potrebbe dire della “carnazione”, perché tutto il mondo è carnato, non incarnato, in quanto già ha senso e non necessariamente deve avere anche un significato. Freud cerca l’assenza corporale, oscilla tra le libere associazioni e l’attenzione fluttuante, e lo fa per entrare nell’inconscio e per uscire dall’inconscio, come Orfeo, che entra ed esce dall’Averno. Moreno, al contrario, fa in modo che il corpo del senso occupi la scena drammatica, rimanendo lì. Sono davvero due modi diversi di parlare, di intermediare.
Come ha notato lo psicodrammatista Ivan Togni, stare su una scena psicodrammatica, significa scegliere di esserci, col corpo, a volte anche senza la testa, senza i significati, senza un testo, significa scegliere di esserci per fare, ed è impegnativo evitare una mera ripetizione del passato e ogni sorta di “intenzione” correttiva o risolutiva. Qual è in un tale contesto la responsabilità del regista, del direttore psicodrammatico?
La prima responsabilità è, come per tutti noi, quella espressa nell’adagio medico che dice “Primum non nocere”. Si può apprendere con l’esperienza che puoi non sapere esattamente dove si sta andando, ma devi comunque capire che ci sono direzioni non buone.
La piccola comunità che si crea durante l’atto terapeutico, sia esso psicodrammatico o no, è descrivibile attraverso il concetto, elaborato dal filosofo Jean-Luc Nancy, di “comunità non operativa”, cioè che non risulta da una produzione, sociale economica o politica, non determinata da significati stereotipati, calcolati. Da una sessione terapeutica sorge una comunità intorno all’emergere di una singolarità, che è un qualcosa che non può essere posto all’interno di una struttura, dentro un clichè. Cos’è per gli psicodrammatisti questa singolarità? È una scena; però il mondo stesso è una scena che ha degli stereotipi e delle singolarità, perché, come dice la cabala, il mondo non è stato creato una volta per sempre, ma viene creato momento per momento. La questione della responsabilità dello psicodrammatista è molto legata a quanto siamo capaci di stare dentro questo patto di costante creazione del mondo, attraverso la scena che è una singolarità.
Quando la scena emerge, noi stessi stiamo dentro questa creazione, ma stiamo anche fuori da lì, siamo decentrati e ciò rende molto complicato il lavoro. Infatti, per essere buoni professionisti dobbiamo possedere e usare degli strumenti, ma non dobbiamo farci catturare completamente da questa téchne, che porta con sé una visione preconfigurata del mondo e di come bisogna fare le cose.
Quando la scena emerge, lo psicodrammatista ne coglie il rischio: è in una situazione particolare, in cui non tutto quello che pensa, non tutto quello che fa è determinato da quello che ha studiato in questa disciplina.
Questo è l’aspetto artistico della nostra professione: non puoi insegnare attraverso definizioni e significati ma puoi creare le condizioni e le provocazioni perché emergano le singolarità, sapendo che sempre ci distolgono dai cliché, da tutte quelle nostre abitudini e tradizioni che ci aiutano e al contempo ci assoggettano.
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Marcelo Pakman (Buenos Aires, 1 Gennaio 1953) ha studiato Medicina e si è specializzato in Psichiatria. Ha scritto vari libri sulle proprie teorie critiche riguardo alcune correnti dominanti della psicoterapia. E’ stato vicepresidente della American Family Therapy Academy e della American Society for Cybernetics. Ha insegnato al Polytechnic Institute di Hong Kong. Le sue conferenze si sono tenute in oltre 80 università in tutto il mondo. Attualmente vive nel Massachussets (New England, USA), dove lavora come psicoterapeuta.
Ringraziamo Marcelo Pakman per la sua gentile disponibilità. Grazie a Salvatore Pace e Fabiana Arena per questa intervista.